Generalmente, quando parliamo di “follia” intendiamo una precisa condizione in cui le azioni di un uomo ci appaiono decisamente fuori da ciò che identifichiamo con “normalità”. La persona folle, in questo senso, si potrebbe dire che assuma comportamenti e atteggiamenti che sfuggono a ciò che in ambito sociale è ritenuto “canonico”, vale a dire accettabile e condivisibile dall’uomo sociale.
Questa premessa è necessaria per indossare gli occhiali migliori al fine di comprendere il nuovo film di Todd Phillips sul personaggio che nell’immaginario collettivo è diventato l’incarnazione della follia: Joker. Prima di andare oltre, c’è bisogno di rispondere a una domanda che sorge spontanea quando si parla di questo tema: che differenza c’è tra “follia” e “pazzia”? Se vogliamo delineare il sottile confine che separa questi due termini, possiamo dare un accento clinico nel secondo caso e concludere che la pazzia è una conseguenza – temporanea o permanente – della perdita di controllo delle proprie facoltà mentali.
Per fare un esempio concreto di ciò che intendo, basta fare un salto nella storia. Senza chiamare in causa antiche civiltà in cui indovini, sciamani e simili avevano un ruolo fondamentale e di grande rispetto all’interno della cerchia sociale, possiamo tranquillamente riflettere su un personaggio molto più vicino: Galileo Galilei. Con la celebre frase “E pur si muove” quest’uomo ha avuto il coraggio di andare oltre qualsiasi pregiudizio derivante dal senso comune del suo tempo, arrivando addirittura a sfidare la Chiesa in un’epoca ben precisa su cui in questa sede è inutile indagare. Ai giorni nostri, nessuno mai darebbe del folle a uno scienziato di tale genio, ma questo esempio ci aiuta a metterci nella giusta prospettiva per gustare quel “meraviglioso” capolavoro di furbizia e accuratezza che è Joker. Inoltre, il mio consiglio spassionato è di lasciare fuori dalla porta l’idea che il cuore di questo film abbia minimamente a che fare con l’omonimo personaggio del mondo di Batman.
Se desideriamo scoprire la visione sia registica, sia dell’uomo che sta dietro Joker, bisogna prendere la pellicola per quello che è e valutarla come se fosse una storia completamente nuova. Chiunque abbia un’opinione diversa o non desidera avere spoiler è bene che prema la crocetta e non prosegua la lettura. In ogni caso, di seguito il trailer del film.
Joker: L’origine del Maestro dell’Assurdo
Fin dalle prime scene appare chiarissima la claustrofobica aria che respira il nostro protagonista. All’inizio del film, vediamo un Arthur Fleck piuttosto semplice: un uomo comune, con il suo fardello sulle spalle e un lavoro non certo di classe, ma necessario a “portare il pane a casa”. Travestito da clown, mentre esegue la sua mansione, viene aggredito da tre teppisti. In questa breve scena c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per dispiegare un uomo dalle sue azioni: per Arthur il lavoro è di vitale importanza, non può permettersi un licenziamento e subito ansia e preoccupazione lo spingono come un disperato alla rincorsa di chi gli ha rubato il cartello pubblicitario.
E questa la dice lunga sul rapporto di un essere umano nei confronti della società: un individuo, che affronta con dignità e per quattro spiccioli il proprio lavoro, è colto alla sprovvista da tre ragazzini non curanti che manifestano un fuggevole divertimento ai danni di un “sempliciotto”. Non appena Arthur raggiunge gli autori del furto, subisce un selvaggio quanto immotivato pestaggio. Ed è proprio la nostra empatia a fare qui da padrona: in questo momento siamo tutti Arthur, dall’adolescente vittima del bullismo, all’adulto ferito profondamente dal giudizio e dalla derisione del prossimo, fino ad arrivare a un lavoratore schiavo in un sistema che non funziona, poiché non è da sostegno.
Successivamente scopriamo che Arthur soffre di un disturbo nevrotico: in determinati momenti non è capace di controllare la sua risata. Nella nuova inquadratura vediamo un uomo finito, umiliato, al limite della sopportazione, parlare con una psicologa, ossia un esperto della mente il cui ruolo dovrebbe essere quello di aiutare a gestire problemi clinici o invalidanti relativi al pensiero.
“Sono io oppure tutti gli altri stanno impazzendo?”
Una frase che al primo fiuto odora di cliché, ma attraverso il magistrale lavoro attoriale ne possiamo carpire un senso più profondo. In questa scena osserviamo la gravità, il peso emotivo di una persona davvero stanca, sconfitta dalla solitudine e soprattutto privata dell’empatia, della comprensione e della compassione dell’altro. E l’altro, in contrapposizione, s’incarna proprio nella figura della psicologa, la quale, con spiazzante leggerezza, disintegra il dramma vissuto dal suo paziente; rispondendo, paradossalmente, con giustificazioni che scadono proprio nel cliché di chi si arrende dinanzi all’intima richiesta d’aiuto di un individuo schiacciato dall’indifferenza; e lo fa, parafrasando, con la più poetica e disarmante delle affermazioni: “That’s Life!”. E sarà esattamente questa la risposta del Joker verso la fine del film, ribaltando con una devastante spinebuster la sua condizione umana e afferrando a pieno regime le redini della propria vita e la libertà delle proprie scelte.
Il sentiero di Arthur Fleck è un percorso racchiuso e delineato già solo a partire dai primi 5 minuti del film e questo basta a testimoniare la densità di una pellicola geniale partorita da un furbissimo Todd Phillips, di cui parleremo in seguito.
La “risata” del Joker
Non possiamo scindere l’evoluzione e la figura del Joker dal tema della sua risata, anche questa curata nei minimi dettagli e con una precisione a dir poco chirurgica. Una risata che a primo impatto suscita l’ilarità dello spettatore, ma che dietro conserva la titanica lotta di Arthur Fleck con il suo disadattamento sociale. Una risata improvvisa e incontenibile che non solo nasce da momenti di forte tensione emotiva. A un’indagine più accurata, forse, si potrebbe sostenere che essa “esce fuori” dalle viscere del Joker, una valvola di sfogo che erutta ogni qualvolta Arthur percepisce un’azione del prossimo che gli appare umanamente assurda, come reputa assurda la sua vergogna nel doversi reprimere accettando le regole di un gioco maniacale: vediamo la risata del Joker quando riflette sull’aggressione subita a inizio film; quando nel benevolo e innocuo tentativo di giocare con un bambino viene accusato dalla madre di importunare il figlio; quando un collega deride e insulta un amico gentile di bassa statura; quando tre uomini distinti in giacca e cravatta molestano con narcisistico edonismo sessuale una donna indifesa. Ed è proprio in questo caso che il dramma di Arthur Fleck supera il limite della sopportazione sublimando in quello che possiamo definire il “La” del futuro Joker: Arthur non ha il tempo di spiegare la sua condizione che viene nuovamente pestato da tre uomini alpha vestiti bene. Il confine tra moralità e giustizia subisce una scossa violentissima che si risolve nell’unico atto possibile per un uomo massacrato dall’umiliazione: la perdita di controllo e, successivamente, l’assassinio delle personificazioni dei suoi demoni. Nessuno scampa alla sua vendetta: nessuno di loro merita il perdono.
Perfino la madre, che rappresenta il primissimo vero coltello nel cuore di Joker: un bambino soprannominato Happy, legato a un termosifone, vittima di oscuri abusi, la cui incrollabile gioia muore trasformandosi nell’infelicità di un uomo incapace di dare un senso alla sua depressione. E quando Arthur giunge alla verità del suo buio passato, scoprendo inoltre di essere stato adottato, non può che soffocare il primo demone della propria esistenza: la sua stessa madre stesa sul letto di un ospedale. Meraviglioso il dipinto fotografico del quadro che racchiude nella stanza la luminosa luce del sole in contrapposizione a quell’oscurità aldiquà della tendina. E, di nuovo, Joker danza, come dopo il suo primo omicidio, esprimendo la sua libertà ritrovata, nella musica armonica della sua follia; un percorso in cui Arthur è l’unico in grado di comprendere, riuscendo addirittura ad avere la forza di perdonarsi.
Ma nella sua vena omicida, il Joker di Phillips ha una logica infallibile e altrettanto inquietante. Ce ne accorgiamo nelle scene successive, quando uccide con inaudita violenza il suo collega, colui che gli ha offerto un’arma per difendersi, ma che, pari merito, lo ha gettato in pasto agli squali. Uccide un uomo che lo ha sempre chiamato “amico“, rivelando una falsità che il Joker non ha potuto fare a meno di punire. E, invece, lascia andare il “semi-uomo“, un nano, che si è sempre mostrato gentile.
Ora, arriviamo a ciò che definirei il climax dell’evoluzione di Joker. Arthur si reca agli studi televisivi dove stanno girando il programma diretto dal suo idolo: Murray Franklin, l’uomo che ha avuto successo laddove l’artista ha fallito. Il sogno di un Arthur che ormai vede fin troppo bene nella verminosa e ripugnante essenza di un individuo che non ha avuto scrupoli nel mettere alla berlina, per tornaconto personale, per audience, la carriera di un comico stroncandola sul nascere. Ed è proprio qui, che Joker trascende annunciando la sua vera persona e rivendicando i delitti commessi. Ed è sempre qui, che la risata di Arthur non è più un nevrotico disturbo, ma diventa pura e reale: una risata interiore, una risata sottile, intima e per niente rumorosa, che si fa beffa di un pubblico allibito, e soprattutto si fa beffa dei buon costumi di una società ipocrita che rende l’essenza di una persona invisibile agli occhi.
“Che ne dici di un’altra barzelletta? Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io cosa ottieni, ottieni quel cazzo che ti meriti!”
Dopo il suo ultimo atto criminale, il Joker danza verso la telecamera ancora accesa, sorride e dà la buonanotte con il solito slogan di chiusura dello show: “That’s Life”. Così è la vita, la vita di un individuo, la vita di Joker.
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Il finale, la gloria di Arthur e la furbizia del regista
Negli ultimi dieci minuti di questo straordinario viaggio nella follia del Joker ci accorgiamo di come un uomo, da sempre perso nel vuoto della sua inconsistenza, ora è finalmente visibile: Arthur stesso nota gli effetti delle sue azioni; una Gotham in fiamme in cui l’anarchia regna sovrana. Eppure, non è l’elogio di un mondo senza regole che stimola il sorriso genuino di Arthur, ma la consapevolezza di poter affermare che lui esiste, perché finalmente vede uomini rispondere al suo richiamo, condividere la sua visione, in un’epopea in cui tutti gridano all’unisono “Ora basta”. Basta all’ignoranza, basta all’indifferenza, basta a una civiltà che impone di essere pecore elettriche che camminano ben ordinate in fila senza mai alzare la testa. E quando poi il Joker, aiutato dai suoi fratelli, riprende conoscenza sul cofano di un’auto della polizia ha definitivamente vinto e non può fare a meno di un’ultima danza mentre una folla lo acclama e lo riconosce come leader rivoluzionario, in contrapposizione a un Arthur che forse inizia a identificarsi come un uomo che ha dato il sangue per diventare un eroe di se stesso. E così, cala il sipario.
Arrivati alla conclusione del film, non possiamo fare a meno di applaudire la scelta registica di lasciarci cadere nel baratro del dubbio: prima di tutto ascoltiamo una risata molto familiare, che ci spedisce simmetricamente ai primi 5 minuti del film. Subito dopo, osserviamo Arthur Fleck parlare nuovamente con una psicologa che ricorda vagamente la prima seduta a cui lo spettatore ha assistito. Una nuova domanda inizia a districarsi tra la confusione della mente: tutto ciò che abbiamo visto è accaduto sul serio? Qui entriamo ancora più a fondo nel dominio dell’interpretazione: a inizio film, la psicologa domanda ad Arthur se ricorda il perché del suo passato in manicomio; subito dopo siamo investiti da un brevissimo flashback di lui in manicomio che batte ripetutamente la testa su una porta. Al termine della pellicola, ritroviamo Arthur con gli stessi vestiti, in una stanza le cui pareti sono identiche a quelle del primo flashback. La psicologa, dal canto suo, sembra non riconoscere nel paziente l’autore di una rivoluzione generatrice di violenza e, soprattutto, ci appare eccessivamente calma dinanzi un omicida. Forse ci troviamo, in realtà, davanti a un semplice uomo che soffre di deliri? Il Joker si è davvero manifestato nella realtà degli eventi? Tutta la scena è un semplice flashback? La chiave della soluzione risiede nella risposta di Arthur alla domanda posta dalla psicologa, che ancora una volta si mostra ignara e addirittura divertita dall’ormai celeberrima risata.
“Stavo solo pensando a una barzelletta”
“Le va di raccontarmela?”
“Sarebbe inutile”
Ed è proprio in questo scambio di battute che un “nuovo” flashback compare direttamente dalla mente di Arthur: la visione di un bambino che ha visto i propri genitori morire davanti agli occhi. E, dunque, la domanda che pongo al lettore: ci troviamo davanti il Joker o Bruce Wayne?
Una domanda che rimane aperta nella scena successiva, in cui osserviamo un Arthur completamente immacolato lasciare impronte di sangue che scompaiono a metà strada. Come a voler far decidere stesso a noi l’inquadrare il confine tra genio e follia, tra fantasia e realtà.
Todd Phillips ha sicuramente fatto il botto azzeccando il tema e lanciandolo nel modo e nel momento più giusti: sfruttando un emblematico personaggio dei fumetti, in un periodo storico del cinema in cui i supereroi vanno per la maggiore è riuscito non solo a creare una storia dalla ciclicità incalzante, straripante di elementi di meta-cinema, ma anche a sfornare un dibattito infernale che ha letteralmente spaccato in due la critica del globo. Il tutto trascinato da un Joaquin Phoenix da oscar che rompe la quarta parete con la sola potenza dello sguardo in quei brevissimi momenti in cui Arthur Fleck è un tutt’uno con il Joker, pietrificando lo spettatore guardando direttamente in camera; e noi ci ritroviamo essere nudi ad affogare dentro quell’abisso.
Concludo il discorso spezzando una lancia a favore di chi ha apprezzato la pellicola, scagionando Joker dalle accuse dei moralisti e dall’etichetta di “brutto film che si poteva evitare”: ricordiamoci che un film è prima di tutto un racconto (e personalmente direi fatto bene: non vedo buchi di sceneggiatura né di recitazione né di fotografia né di montaggio), un ludus che ci distrae dalla routine molto spesso snervante e ci concede la possibilità di seppellire l’ascia di guerra in favore di uno scambio di opinioni. Ed è proprio questo, in ultima analisi, l’invito del film: l’occasione di parlare senza giudizio; poiché alla fine della fiera se ti invito per un caffè perché ho voglia di scambiare due chiacchiere in virtù di un sano confronto, ma tu rispondi ruotando intorno alla questione lasciandomi capire “scusa, ma non ho tempo per te” è evidente che c’è un problema umano non indifferente, poiché c’è un dislivello. O, forse, un problema linguistico di base che manderebbe in crisi lo stesso Wittgenstein. E, dunque, quale può essere la soluzione? Semplice, idiota (citando i Radiohead), rallenta; rallenta, perché qui siamo tutti turisti di passaggio: hai a che fare con una persona, vera quanto te, non con una formica-ingranaggio fatta di microchip emozionali. Perché è vero che esistono molti individui ben radicati, saldi e solidi, ma è altrettanto vero che esistono tante altre persone che sono piume nel vento in balìa degli eventi. E ognuno di noi si colloca in un punto ben preciso di questa estensione, mentre ogni giorno lotta per capire dove andare. Joker di Todd Phillips è ispirazione pura, un cocktail definitivo di arte, genio e tecnica che è impossibile non bere tutto d’un fiato.
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